Il bias della paura

Come il nostro cervello valuta il pericolo

In Toscana diciamo “meglio ave’ paura che toccarne”. Lo stesso detto esiste in molte altre lingue e dialetti. Gli inglesi dicono “better safe than sorry”.
Gli psicologi hanno dato questo nome, better safe than sorry, ad un bias cognitivo, il bias della paura, un meccanismo protettivo creato dal nostro cervello per tenerci al sicuro dai pericoli, che consiste nel sovrastimare la possibilità di un evento avverso, spiacevole o pericoloso, e indurci a mettere in atto un comportamento protettivo. Solitamente in natura il pericolo è rappresentato dall’attacco di un predatore: infatti, quando riconosce il pericolo, il corpo si prepara all’attacco o alla fuga. Si attiva l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e vi è un’immediata produzione di ormoni come il cortisolo, che ci preparano all’azione.

Questa reazione prende il nome di arousal. Il battito cardiaco aumenta, i muscoli si tendono, aumenta la vigilanza sul segnale di pericolo. Il resto (fame, dolore, desidero sessuale, fatica) viene inibito. Sacrificato, temporaneamente, per la sopravvivenza dell’individuo.
Il nostro cervello non è fatto per fare valutazioni che siano le più realistiche possibili. Non è un calcolatore, non usa il metodo scientifico, la logica razionale, non si basa su dati oggettivi.

Il nostro cervello ha l’obiettivo di tenerci al sicuro, e per farlo usa le informazioni che ha a disposizione, ovvero gli eventi a cui abbiamo assistito o a cui hanno assistito i nostri simili. Se sono stata morsa da un cane, è probabile (se non ci sono altri eventi riguardanti i cani caratterizzati da emozioni positive) che alla vista di un cane io abbia una reazione di paura. Si chiama condizionamento. Ma ciò può avvenire anche se, di fronte ad un evento nuovo, per me neutro, vedo un mio simile, uno del mio gruppo di riferimento, che ha paura e scappa. Si chiama modeling, è un tipo di apprendimento basato sull’imitazione, particolarmente importante in età evolutiva.

Se vede il padre che ha paura, o che è preoccupato, molto probabilmente anche il bambino si preoccuperà. In questi casi non ci prendiamo la briga di valutare in modo autonomo se effettivamente ci sia pericolo. Non ne avremmo il tempo. Diamo per scontato che ci sia e cerchiamo di metterci in salvo. Allo stesso modo agisce questo bias, il better safe than sorry: ci dice sostanzialmente “nel dubbio tu scappa”. Se poi il pericolo non c’era poco male, meglio un falso allarme che un’omissione di fronte a un pericolo reale.
Tutto ciò è utile alla sopravvivenza.

Però ha ovviamente dei costi. Perché nel mondo di oggi, data la complessità delle informazioni a nostra disposizione, ma anche la molteplicità dei nostri scopi, che sono talvolta in contrasto gli uni con gli altri, praticamente ogni stimolo percepito potrebbe essere un segnale di pericolo e ogni nostra azione potrebbe compromettere qualche nostro obiettivo.

E qui entrano in gioco le nostre emozioni, le nostre esperienze più significative, a ricordarci che quella cosa lì, che temo molto, va evitata ad ogni costo. Se temo la bocciatura più di ogni altra cosa, è probabile che io sovrastimi la possibilità di essere impreparato, e nel dubbio rinunci a presentarmi all’esame. Se temo di fare una figuraccia davanti a tutti perché parlando potrei balbettare, è facile che io scelga di restare in silenzio. Se temo di avere un tumore perché un mio congiunto è morto di tumore ed è stato terribile, è possibile che ogni volta che ho un mal di pancia la prima cosa a cui penso non sia “forse ho mangiato troppo, o troppo in fretta” ma “oddio potrebbe essere un tumore”. Questi sono tre esempi rispettivamente dell’ansia da prestazione, dell’ansia sociale e dell’ipocondria. Tre esempi in cui un meccanismo protettivo finisce per creare un sacco di problemi in termini di energie sprecate, occasioni perse, ansia continua e conseguente malessere.

Gli effetti della paura: l’esempio del coronavirus

L’assalto ai supermercati

In queste settimane abbiamo avuto modo di toccare con mano gli effetti del better safe than sorry: la presenza di una persona con tratti asiatici ha iniziato a incutere timore, sentire qualcuno che tossisce ci provoca una reazione di allarme, e le nostre abitudini sono cambiate di conseguenza. Non stiamo delirando tutti. Ciò che temiamo è reale. Il coronavirus esiste realmente, e la possibilità di contagiarsi c’è. Ad essere inesatta è la reale probabilità di essere in pericolo proprio in quel dato momento, proprio a causa di quella persona che ha tossito. È il nostro cervello a metterci in allarme, a dirci “tu nel dubbio stai alla larga”.

Ed è qui che la scienza, coi suoi dati ufficiali, coi suoi studi rigorosi, deve venirci in aiuto. Ricordandoci ad esempio che in Toscana si sono registrati pochissimi casi. E che in Cina può esserci andato chiunque, e che tanti cittadini di origine cinese in Cina non vanno da anni o non sono mai stati. Che una distanza un un metro e mezzo è garanzia di sicurezza anche se l’altro tossisce o starnutisce. Che comunque, se siamo sani, anche se dovessimo ammalarci difficilmente moriremo. Che difficilmente ci mancherà il cibo, anche se dovessimo fare due settimane di quarantena. Che le mascherine chirurgiche sono utili per proteggere gli altri dai propri virus, non il contrario.

E poi dovrebbe venirci in aiuto la psicologia, se siamo capaci di un minimo di auto analisi. Cos’è che temiamo di più? Non è una domanda banale, per niente. Probabilmente per molti non è la malattia in sé a far paura, ma le sue implicazioni: alcuni temono ripercussioni lavorative (compromissione del senso di auto efficacia, del valore personale, dello status sociale, dell’autonomia economica). Altri invece si preoccuperanno di creare problemi ad altri ammalandosi (senso di colpa). Altri ancora si preoccuperanno delle limitazioni che la malattia comporta (rinuncia a cose piacevoli, obbligo di seguire prescrizioni imposte da altri). Altri infine non temono tanto per se stessi, ma per altri (potrei perdere mio padre, che è a rischio). Di nuovo, non si tratta di deliri, gli eventi temuti sono tutti possibili, ma quanto la nostra paura tende a farceli ingigantire? Davvero rischieremmo il fallimento, o il licenziamento, se per qualche settimana non fossimo in grado di lavorare? Se dovessimo chiedere un prestito per far fronte alle perdite, sarebbe davvero così terribile? Dover rinviare un viaggio, perdere il matrimonio del cugino, il concerto tanto atteso, è sicuramente spiacevole, ma si sopravvive! E se anche il padre anziano dovesse ammalarsi, non è detto che morirebbe! E’ la nostra paura a farci vedere questi scenari più terribili di quanto siano realmente.

Infine, l’ansia e la preoccupazione legate a tali paure sono tanto maggiori quanto più ci sentiamo inermi, privi di risorse per fronteggiare il pericolo. Se pensiamo di poterci proteggere in qualche modo, ecco che l’ansia si riduce. Almeno avremo fatto tutto il possibile (evitando così la famigerata “colpa deontologica”, così centrale nel disturbo ossessivo compulsivo). Ed ecco spiegati gli assalti ai supermercati, l’uso irrazionale di mascherine chirurgiche nell’illusione di proteggersi. Ecco le tante assurdità a cui abbiamo assistito in questi giorni, come la paura legata agli animali e agli oggetti, che invece sappiamo che non trasmettono il virus. Si cerca di fare il possibile per mettersi al sicuro, perché il nostro cervello ci spinge a farlo, a fare comunque qualcosa, anche in assenza di evidenze scientifiche.

In realtà ciò da cui dobbiamo davvero guarire è la paura. Che ci porta ad allarmarci più del necessario e a mettere in atto comportamenti protettivi assolutamente inutili. A scapito della qualità della vita e delle relazioni sociali. Ovviamente non sto dicendo di ignorare il pericolo e uscire come se nulla fosse, ma di agire secondo le direttive date dalle autorità sanitarie. E di toglierci dalla testa scenari apocalittici.

Bias della paura: consulenza psicologica a Pisa – Dott. Valeria Bigarella

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